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Cosa è cambiato nelle abitudini alimentari e nello stile di vita degli italiani?

110 anni sotto la lente d’ingrandimento dell’antropologia culturale

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Nella storia dell’alimentazione umana 110 anni sono un batter d’ali di farfalla, ma se pensiamo a ciascun individuo, rappresentano una durata molto lunga, almeno quattro generazioni dove è possibile notare e documentare cambiamenti lenti o repentini.

 

In questi 110 anni le modalità di approvvigionamento del cibo sono cambiate e con loro è variato sia lo stile di vita degli italiani sia la loro cultura alimentare. In alcuni casi si è assistito a un progressivo ma lentissimo mutamento di abitudini, in altri casi si è avuto un taglio drastico con un passato letto come imbarazzante, perché segnato da povertà o vergogna[1].

 

Le grandi industrie alimentari, come Nestlé, i cui prodotti da più di un secolo trovano spazio tra gli scaffali di drogherie, prima, e supermercati, poi, hanno saputo interpretare il cambiamento, in alcuni casi lo hanno favorito, in altri lo hanno indirizzato.

Nel 1913 vennero introdotti in Italia la Farina Lattea e il Latte Condensato Nestlé. Questi due prodotti di invenzione e provenienza estera[2] hanno influenzato l’alimentazione del Paese nel suo immaginario più profondo: erano un surrogato sia del latte materno sia di quello vaccino per i neonati che non avevano la possibilità di essere nutriti direttamente dalle madri, tenuti a balia o lasciati nei brefotrofi e hanno sia negli anni precedenti la Grande Guerra, sia nel periodo bellico e postbellico salvato la vita a molti bambini da morte per malnutrizione. Tale tipologia di latte è divenuta iconica nella dieta alimentare degli italiani ed è stata nei decenni successivi presente in tutte le case, spesso regalata alle neo-mamme come dono dopo il parto. Il Latte Condensato è stato utilizzato da tutta la popolazione e non solo dai neonati: questo prodotto ha permesso di avere a portata di mano un ingrediente utilissimo, quasi indispensabile, ma senza la criticità di una scadenza a breve termine, come quello fresco.

A parte questa innovazione radicale nell’alimentazione umana, all’inizio del Novecento e per tutta la prima parte del secolo le abitudini degli italiani soprattutto nelle zone rurali, che riguardano la maggior parte del Paese, sono rimaste legate al settore agricolo con una scelta di ingredienti poveri, farine non raffinate, verdure al posto della carne, che veniva consumata solo nei giorni di festa come il periodo natalizio e pasquale o in alcune determinate domeniche[3].

Nella seconda parte del Novecento soprattutto dagli anni Sessanta in poi le abitudini alimentari della popolazione italiana si sono modificate: gli spostamenti per motivi lavorativi (emigrazione interna) hanno progressivamente modificato lo stare a tavola delle famiglie e la dimensione collettiva dell’abitare. Sempre più venendo in città le massaie necessitavano di acquistare ingredienti già processati: il dado, fondamentale ingrediente per la maggior parte delle preparazioni tipiche della nostra cucina, che già dalla seconda parte dell’Ottocento si trova nei ricettari storici, presenti in ogni credenza, da quello dell’Artusi a quello della Turco Lazzari, ma doveva essere autoprodotto con un dispendio di tempo notevole, finalmente si trova già pronto e acquistabile. Questa innovazione cambia molto le abitudini alimentari e lo stile di vita: le mamme e le nonne possono così servire più spesso piatti che prevedono questo ingrediente creando quelle abitudini che difficilmente sono state rimpiazzate. Chi non ricorda di avere sorseggiato una minestra alla sera, piatto tipico in ogni casa italiana che ha contraddistinto l’infanzia di tutti i bambini? Il famoso Consommé, seguendo proprio il radicarsi di questa abitudine, si trova in qualsiasi menù di cena in albergo (anche in quelli di lusso) almeno fino agli anni Novanta.

Le abitudini degli italiani hanno poi subìto una drastica rivoluzione con il diffondersi del modello americano del supermarket. Sul Corriere della Sera (27/28 novembre 1957) c'è un breve articolo di cronaca che racconta la nascita del primo supermercato italiano a Milano, luogo nel quale i milanesi avrebbero potuto trovare zuppa di canguro, nidi di rondine, pinne di pescecane accanto ai cibi tipici e tradizionali: un modo di “comperare modernamente”, recitava l'occhiello. Si stava modificando infatti la modalità di relazionarsi con il quartiere nel quale si abitava: prima il cibo veniva acquistato nelle piccole botteghe specializzate e a conduzione familiare, dagli anni Sessanta in poi il mutamento, definito come irreversibile e rivoluzionario degli usi e costumi del consumatore medio, rivelava uno spostamento della fiducia che dal rivenditore passò alla marca. Gli italiani sia delle città sia delle aree rurali oltre gli ingredienti tipici della dieta mediterranea avevano a disposizione anche altre tipologie di preparati: alcuni cibi rivoluzionarono ad esempio la colazione dagli anni Settanta in poi come il cacao, i cereali o i surrogati del caffè e andarono a sollecitare proprio il pubblico più giovane, i bambini.

Oggi si assiste ad un ulteriore cambio di prospettiva in alcune fasce sociali: chi se lo può permettere  ritorna a fare la spesa selezionando i prodotti, cercandone di salutari, c’è una attenzione maggiore alla propria forma fisica come accade in periodi di crisi transitoria[4]: la cura del sé caratterizza il nuovo lifestyle degli italiani. C’è una vera attenzione a cosa si decide di mangiare, a come lo si prepara, all’utilizzo del cibo come ingrediente principale per una vita salutare o all’insegna della salute. Gli italiani cercano diete utili al proprio benessere: oltre alla attività sportiva, una serie di preparazioni bilanciate sono state riscoperte o importate anche da cucine di altri Paesi. Si pensi alla diffusione delle poké bowl come piatto completo e salubre che permette a molti di pranzare nella pausa lavorativa facendo una scelta equilibrata. In questi ultimi due decenni si è quindi assistito ad un cambio radicale nello stile di vita e nello stare a tavola: il cibo viene letto oggi più che mai come una sorta di φάρμακον (farmaco) capace di risolvere, ma allo stesso tempo da cui guardarsi per paura che, se in eccesso, possa risultare nocivo[5]: si consultano le etichette e si è divenuti esperti dei diversi valori nutrizionali, anche questo è un cambiamento dello stile di vita generale.

Il cibo, infine, anche nella vita e nelle abitudini degli italiani è qualcosa che allontana dal dolore, questo meccanismo che colpisce direttamente il nostro cervello sembra non tramontare mai, concede di dimenticare, trasforma latto della nutrizione in un evento culturale[6]. Vi sono cibi che più di altri permettono di avvicinarsi a queste sensazioni: non è un caso che si sia associato il cioccolato all’amore (chi non ha mai assaggiato, acquistato da sé o ricevuto in dono da altri, un Bacio Perugina, ne ha letto con avidità il cartiglio romantico, ne ha subito scartato un altro?), le sostanze in esso contenute agiscono sui centri umorali del cervello come agisce l’innamoramento[7].

Sono le esperienze che permettono alla nostra sensibilità di affinarsi sempre di più: il cibo è una modalità unica di esperire e di rinforzare le percezioni sensibilizzandole. La sensibilità non è una attitudine astratta, che può essere coltivata leggendo trattati su di essa, deve invece essere esercitata continuamente[8]. Pertanto le abitudini, che solo apparentemente sembrano stabili, possiedono, come l’identità individuale e culturale, un dinamismo proprio, che a volte si manifesta con evidenza altre volte è nascosto.

Il cibo si prende cura di chi lo assume, gli esseri umani si prendono cura del territorio di vita[9], di cui l’Italia è ricchissima, che li circondano sia in città sia nei paesini più sperduti: anche i dati dell’indagine dell’Osservatorio Nestlé (2022) hanno messo in evidenza che gli italiani chiedono felicità e soprattutto dopo la parentesi pandemica sono alla ricerca di condivisioni, di dimensioni collettive dove poter sperimentare benessere. Anche questa novità è all’insegna del mutamento che sta avvenendo nel lifestyle degli italiani: se prima erano assolutamente poco interessati a questa dimensione di ricerca dello star bene, oggi più che mai chiedono questa cura, sia per sé stessi, sia nei confronti dei familiari, degli amici e dei colleghi.

Fin dalle prime cene nelle caverne[10] il cibo e lo stare insieme a tavola rappresentano condivisione, scambio, di linguaggio, di emozioni, di percezioni, di idee: questa abitudine di sedere insieme in un convivio e parlare di quello che si sta mangiando è impossibile da sradicare nella cultura italiana, e in questi 110 anni si è rafforzata sempre di più, oggi abbiamo aggiunto anche la salute!

 

 

 

 

 

 

 

 

 


[1] Teti V., Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Meltemi 1999

[2] Il primo è di origine svizzera nel 1860, brevetto del farmacista Henri Nestlé nel proprio laboratorio di Vevey e il secondo è francese del 1866.

[3] Villa M., «Quando il cibo è specchio del territorio: l’antropologia culturale e l’alimentazione» in Di Bernardo G., Villa M. (Eds.), Alimentazione e arte della cucina. L’esperienza del Trentino, Laterza, 2019 pp. 51-83

[4] Villa M., L'interdetto, Aracne 2021.

[5] Derrida J., La farmacia di Platone, Jaka Book, 1972

[6] Calvino I., Perché leggere i classici, Mondadori 1991

[7] Si tratta in particolare della feniletilamina che dona una sensazione di piacere e benessere

[8] Harari J. N., Homo Deus, Bompiani 2019

[9] Iob M. 2023, Se non ci fosse un futuro da rispettare, non ci sarebbe nulla da conservare: la Legge 168/2017 per i territori di vita, in «Slowzine», 15, pp.  6-7.

[10] Silvertown J. 2018, A cena con Darwin, Bollati Boringheri